Sport, condivisione, solidarietà, competizione. Quattro termini che contraddistinguono, e in un certo modo definiscono in maniera piena, intersecandosi continuamente, il senso profondo del Wheelchair Rugby. Come sempre, quando si tenta di entrare nella dimensione completa di uno sport, ci si può avventurare a occhi chiusi, con tutte le incognite del caso, ma noi di OutsiderSport.it abbiamo scelto di farci guidare dalle parole e dall’esperienza di Rufo Iannelli, capitano e fondatore del Romanes Wheelchair Rugby.
Società che ha dato vita al ”#6Sedie – il 6 Nazioni Seduto”, iniziativa dedicata al rugby in carrozzina e patrocinata dalla Federazione Italiana Rugby, dall’International Wheelchair Rugby Federation (IWRF) e dal Comitato Italiano Paralimpico del Lazio. Addentriamoci dunque, guidati da Rufo Iannelli, in una panoramica a 360 gradi sul Wheelchair Rugby, sul movimento e su cosa c’è da fare per farlo crescere ancora.
Spieghiamo ai nostri lettori cos’è il Wheelchair Rugby
”Uno sport di squadra in carrozzina. Praticato da persone con disabilità agli arti inferiori e superiori, soprattutto tetraplegici ma anche assimilabili, quindi chi più ne ha più ne metta. Quando la disciplina è stata inventata serviva un corrispettivo di uno sport per normodotati cui aggiungere il suffisso “in carrozzina” per essere riconosciuta, ma nonostante abbia più regole in comune con il basket in carrozzina, noi ci troviamo bene in compagnia del mondo del rugby. Io non ho mai praticato il rugby quando camminavo, ma penso che più che per gli impatti tra carrozzine, assomigli al rugby tradizionale per quantità di cibo condiviso e strette di mano”.
Una disciplina nata negli anni ’70 in Canada e che ha campionati professionistici in America, Argentina, Giappone, Australia mentre in Europa sono Germania e Gran Bretagna le nazioni all’avanguardia. In Italia come è la situazione?
”In Italia questa disciplina si gioca da poco meno di dieci anni e ci sono attualmente una cinquantina di giocatori in 6 squadre. Ci sono club molto attivi ma manca un vero e proprio coordinamento, che non permette un salto di qualità ormai necessario e fortemente richiesto dalle società che praticano il rugby in carrozzina in Italia”.
I Romanes sono una realtà giovane ma già molto consolidata: obiettivi a medio e lungo termine?
”Sì. Cerchiamo di dividerci gli oneri in base alle competenze e abbiamo lavorato molto per consolidare un gruppo stabile e affiatato. Vogliamo creare sempre maggiori collaborazioni con l’estero, perché abbiamo molto da imparare sotto molti punti di vista, tattico, organizzativo e promozionale. Vorremmo creare un torneo di club del Mediterraneo e creare degli appuntamenti fissi rinomati a livello internazionale. Uno di questi il Sei Sedie, ovviamente”.
Il Sei Sedie, appunto: come è stata la risposta del pubblico?
”Ogni volta che lo abbiamo organizzato (questo è stato il secondo anno consecutivo) abbiamo riempito il PalaLUISS di Piazza Mancini. Abbiamo coinvolto gli amici del rugby tradizionale e abbiamo sfidato seduti gli ex azzurri, Rubio, Danilo da Fiumicino e gli amici di Libera. 150/200 persone che tifano a un evento di rugby in carrozzina sono una piacevole novità in Italia e il Sei Nazioni ci offre una piccola parte nel grande spettacolo che va in scena ogni febbraio a Roma”.
Tra un anno e mezzo ci saranno le Paralimpiadi a Tokyo: quali prospettive per la Nazionale italiana e Romanes nel giro azzurro?
”Purtroppo nessuna. Recentemente l’Italia è scesa di circa dieci posizioni nel ranking mondiale e si trova oggi al 23º posto, ma accedono alle Paralimpiadi solo le prime 12. Anche in Europa siamo attualmente in fondo alla classifica. Per questo motivo noi stiamo cercando di fare la nostra parte per far crescere il movimento. Romanes in nazionale non è una nostra priorità. Dobbiamo prima di tutto fare in modo che tutti i potenziali atleti sappiano dell’esistenza della nostra squadra e quindi del rugby in carrozzina. Spunteranno fuori anche i campioni, ne siamo certi”.