“Solo facendo un sacco di errori si possono superare le paure e i timori di essere un outsider”. Inizia così una lunga chiacchierata con Valerio Bianchini, bergamasco di nascita ma romano d’adozione, allenatore di pallacanestro, uomo di sport, scrittore. Una figura che più la ascolti e più ne rimani affascinato tanta è la cultura, gli aneddoti, le storie che vengono raccontate da chi ha fatto la storia del basket italiano ed europeo tra gli anni 70 e 90.
Un outsider, anche Valerio Bianchini, che ha iniziato giovanissimo, ad appena 23 anni, in una squadra femminile: “E vincemmo subito il campionato. Poi varie esperienze come assistente di Guerrieri e Taurisano. A ciò si aggiunsero alcune panchine in Serie B perché all’epoca non esisteva la A2. Nel 1972 mi giunse l’offerta di venire alla Stella Azzurra dove rimasi per ben sette anni. La carriera di un allenatore giovane dipende molto dalla società in cui si trova e io fui molto fortunato qui a Roma. La base era quella del Collegio De Merode e quindi un ambiente che mi ha sempre dato fiducia, non facendomi mai pesare i miei errori”.
Ne venne fuori una storia bellissima: “Quarti in campionato, semifinale di Coppa Korac ma il successo più importante, probabilmente, rimane la conquista dell’Eur. All’epoca, il basket a Roma era un qualcosa di elitario che si giocava solo nei pressi della zona nord della Capitale. Luciano Acciari ebbe un coraggio enorme di portare la squadra al Palaeur, dopo l’abbinamento con la Perugina. Ricordo sempre il primo allenamento quando mi rivolsi ai ragazzi e dissi: guardate che qui ci sono ancora le impronte di Bill Russell e Jerry West dopo le Olimpiadi del 1960. I dirigenti furono bravissimi a coinvolgere il quartiere: in poco tempo avevamo una media di sette-ottomila spettatori al palazzo”.
Dopo la Stella Azzurra tre anni incredibili a Cantù con vittorie a ripetizione: “Vincemmo praticamente tutto: uno scudetto, una Coppa delle Coppe e la Coppa dei Campioni. Avevo a disposizione una squadra fenomenale: Flowers, tombolato, Riva, Marzorati. Ricordo la prima finale, quella contro il Barcellona proprio al Palaeur: non sapevamo cosa aspettarci ma invece trovammo fiumi di gente che ci attendeva per incoraggiarci. In quel momento capii che anche a Roma si sarebbe potuto fare basket ad altissimi livelli”.
E nella Capitale lei cambiò la storia della pallacanestro italiana e della Virtus: “In realtà fu un azzardo perché Cantù era una delle società più forti in Italia e in Europa. Ci fu, come detto, l’esperienza della finale di coppa e poi, nel frattempo, mi ero sposato con una ragazza di Roma. Ricevetti l’offerta del Banco di Roma, una squadra giovanissima che si trovava in Serie A da appena due stagioni. C’era un ottimo gruppo di giocatori romani, Gilardi, Sbarra, Polesello, ai quali si aggiunse Solfrini, che portai da Brescia. Come pivot straniero c’era Kim Hughes. Ci mancava il secondo slot straniero”.
Un secondo slot che lei trovò a Monroe, Lousiana: “Venivo dall’esperienza di Cantù con un play come Marzorati e conoscevo benissimo l’importanza di avere un giocatore del genere. Mi ricordai così di questo ragazzo che era un grandissimo play anche un ottimo tiratore, il quale aveva il titolo con Washington ma era sparito dai radar della Nba. Parlai con Donald Dell, il capo degli scout della Lega, che mi disse che aveva smesso di giocare perché c’erano stati problemi con la dirigenza dei Bullets: Larry aveva vissuto da bambino il difficilissimo periodo dell’integrazione negli anni 60. Lo andai a trovare a casa sua, dove stava facendo dei camp per i ragazzi, e lui mi portò a un Ricreation Center: un capannone semidiroccato dove si giocava tutti insieme, dai giocatori Nba al figlio del lattaio. Wright ovviamente era di un altro livello ma coinvolgeva sempre tutti nella sua squadra: lì capii che era il giocatore di cui avevo bisogno. Inizialmente non voleva saperne ma quando ci trovammo a casa sua, e gli dissi che molti giocatori con cui aveva giocato si trovavano in Italia, si convinse e tornò con me. Il resto, come si suol dire, è storia: scudetto e Coppa dei Campioni in soli due anni”.
Marzorati, Wright e Darwin Cook: “Un’altra storia meravigliosa. Arrivai a Pesaro dopo la Nazionale: lì avevo allenato Costa, Gracis e Magnifico ed ero consapevole del potenziale a disposizione. La Scavolini aveva acquistato Greg Ballard e Aza Petrovic, il fratello di Drazen. Giocatore pazzesco ma classico slavo: mano fatata, difesa zero. Io ero innamorato di Cook ma lui giocava in Nba. Così, quando mi giunse la notizia che era stato tagliato, volai in America, nascondendo il mio viaggio a tutti in società, per cercare di ingaggiarlo. Ovviamente la notizia si sparse subito e arrivò alla dirigenza. Volai a Lacrosse, dove giocava in Cba, e lo chiamai dicendogli che avrei voluto parlargli dopo aver visto la partita. Il destino volle che, nella squadra avversaria, ci fosse un ragazzo che segnava a ripetizione facendo sfigurare tutti, Darwin compreso. Lo guardai bene e riconobbi Ray Sugar Richardson. Intanto, in Italia, Aza aveva segnato più di 40 punti in una partita. Avrei dovuto dire a Cook che non se ne sarebbe fatto nulla ma lui, a cena, mi si avvicinò mi guardò dritto negli occhi e mi disse: Coach, I’m your man. Ovviamente tornò indietro con me. Avevo tutta Pesaro contro. Alla prima gara play off contro Caserta e Oscar, in quel momento il miglior tiratore europeo, misi Darwin a marcarlo: per tutti una scelta folle. Come il brasiliano fece rimbalzare la palla per preparare il suo tiro letale, Cook glie la rubò andando a schiacciare. Naturalmente con lui, e Darren Daye, vincemmo lo scudetto”.
Abituato a giocatori Outsider in America: ma se ne dovesse indicare uno nella sua lunga carriera: “Ne ho avuti tanti ma mi piace ricordare Andrea Gracis. Un play puro ma dotato di un tiro micidiale. Andammo a giocare il McDonald’s Open a Madrid con il Real, la Jugoslavia e i Boston Celtics di Bird, Parish e McHale. Dissi ad Andrea: divertiti in questi giorni. Alla fine del torneo la classifica dei marcatori era la seguente: Drazen Petrovic, terzo; Larry Bird, secondo, e Andrea Gracis, primo. Questo per dire che a volte certi giocatori possono avere delle risorse incredibili”.
Una vita incredibile, bella, fatta di vittorie, di aneddoti, di storie meravigliose. Coach se oggi dovesse dare un consiglio a un ragazzo che volesse diventare allenatore di basket, cosa gli direbbe: “Fai un mestiere serio. Scherzi a parte, ai miei tempi c’erano due figure mitiche: l’allenatore e il giornalista. Io collaboravo con il Guerin Sportivo sulla pagina di Giordani dedicata al basket. Un giorno, mentre parlavo con lui, gli chiesi: secondo lei dovrei fare il giornalista o l’allenatore. Mi guardò e mi rispose: fai l’allenatore che di giornalisti ce ne sono anche troppi e poi guadagni un sacco di soldi. E così iniziò tutto”.